giovedì 9 ottobre 2014

ROSA FRESCA AULENTISSIMA (Lezioni Minime, dalle origini al trecento, Storia della Letteratura Italiana, secondo capitolo)

Lezioni Minime - Storia della letteratura italiana

DALLE ORIGINI AL TRECENTO  

Per leggere i capitoli precedenti:
Primo Capitolo

Secondo Capitolo
ROSA FRESCA AULENTISSIMA 

Dopo le guerre di Provenza, i giullari si riversarono in maniera massiccia e capillare in tutta la penisola italiana. 
Così di conseguenza, nel giro di pochi anni, la poesia laica in volgare, specie a tematica amorosa, che aveva fatto la fortuna dei poeti occitani, si diffuse in tutta Italia, riscuotendo così tanto successo da favorire, se non addirittura determinare la nascita della Letteratura Italiana. 

Ovviamente, in un'Italia estremamente frammentata come quella del 1200, teatro non solo delle guerre tra Impero, Papato e Comuni, ma anche di guerre civili all'interno delle stesse istituzioni comunali, l'avvento e lo sviluppo della Letteratura non potevano avvenire in maniera identica e uniforme. 
Però, se ragioniamo per grandi numeri, possiamo individuare tre grandi aree geografiche: il nord, dove all'imitazione e alla traduzione delle poesie dei provenzali iniziò ad andare di moda la poesia mistica, allegorica e visionaria; il centro, dove dominò la poesia religiosa; il sud, dove sempre ispirandosi alla poesia laica provenzale, nacque la prima "scuola" poetica della storia della Letteratura Italiana. 

Partiamo proprio dal sud. 
Per riportare la sede dell'Impero in quella che era ancora ritenuta la sua sede naturale, l'Italia appunto, e per controllare più da vicino le manovre politiche del Papa, Federico II di Svevia decise di trasferire la corte imperiale in Sicilia. 
Con l'ambizione di emulare gli antichi imperatori romani, Federico II investì moltissimo, con scopi ovviamente propagandistici, nella cultura. 
Tra le altre cose, fondò l'Università di Napoli e la Scuola Medica di Salerno. E, cosa che ci interessa maggiormente, attorno al suo regno, favorita e incoraggiata direttamente dalla sua persona, fiorì la cosiddetta Scuola Siciliana

Come già detto, si tratta a tutti gli effetti della prima scuola poetica (o primo movimento poetico, che dir si voglia) della Letteratura Italiana. Ma con una caratteristica del tutto particolare. Anzi, più che particolare, diciamo proprio assurda e grottesca: nessuno dei suoi componenti era un poeta né, più genericamente, un letterato
Com'è possibile tutto ciò?
Semplice: una delle grandi ambizioni di Federico II era proprio quella di avere una poesia di corte, ma non essendoci in Sicilia poeti "di professione" (non dimentichiamoci che la Letteratura Italiana doveva ancora nascere), investì dell'altissimo compito persone che poeti non erano, ma erano tutti uomini di legge, avvocati, notai, tutti freschi di laurea all'Università di Napoli fondata dall'Imperatore. 

Di gran parte della letteratura che tutti noi abbiamo studiato a scuola, ne conserviamo un ricordo decisamente pesante. Ecco, nel caso della Scuola Siciliana, il liceo non c'entra: è veramente pesante e poco sostenibile
Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Certo i siciliani furono importanti, importantissimi: oltre a dare il "la" alla poesia in volgare italiano, tra le tante cose inventarono il sonetto, che divenne da subito la forma metrica d'eccellenza della poesia italiana. Ma se si parla di emozioni proprio no, non ci siamo. La poesia dei siciliani è fredda, schematica, per forza di cose - non essendo veri poeti e quindi non mossi da reale necessità nello scrivere - costruita a tavolino. 

Su che basi però, Giacomo da Lentini e gli altri autori siciliani, costruirono queste poesie a tavolino? 
Sulla base ovviamente della poesia dei trovatori provenzali, quella poesia "importata" in Italia, e quindi anche in Sicilia, dai giullari. 
I sonetti e le canzoni della scuola siciliana, ricalcano infatti (a volte sono praticamente delle traduzioni) gli schemi tematici dei trovatori e dell'amor cortese: la perfezione della donna, l'amore come un patto di fedeltà tra il cavaliere/servitore e la dama/padrona e via dicendo. 

Ma dove la troviamo la "mano" dei giullari, la traccia del loro passaggio? 
Come si è detto nel capitolo precedente, il giullare era un artista poco classificabile, essendo contemporaneamente attore, ballerino, musico e scrittore. Ovvio quindi che spesso e volentieri i giullari, senza alcuna soluzione di continuità, si mescolassero e si confondessero ai letterati "puri". 
Proprio nella Sicilia dei primi decenni del 1200 troviamo uno dei casi più lampanti, interessanti e divertenti di questa mescolanza. 

Prima di tutto, una precisazione: della scuola siciliana noi non leggiamo gli originali.  
Quando a metà secolo crollò l'Impero svevo nell'Italia del sud, gran parte dei suoi patrimoni andarono perduti. Tra questi, i manoscritti dei poeti della Scuola Siciliana. 
E allora, se andarono perduti, come facciamo a leggerli? Presto detto: gli originali furono trascritti da copisti toscani, che però non si limitarono a ricopiarli, ma li tradussero. Perciò noi non leggiamo gli originali in volgare siciliano, ma le traduzioni in volgare toscano. 
Tutti tranne uno, il componimento intitolato Rosa fresca aulentissima
Perché, tra i tanti, questo fa eccezione? Perché il suo autore, tale Cielo d'Alcamo, di cui sappiamo quasi nulla, non era un poeta della Scuola Siciliana, ma bensì un giullare.

Facciamo un po' d'ordine e cerchiamo anzitutto di capire due cose: cosa sappiamo di questo autore e cosa sappiamo di questo testo?
Partiamo dalle certezze: Cielo d'Alcamo (anche se probabilmente non si chiamava così, ma su questo torneremo dopo) era sicuramente un giullare, molto vicino ai poeti della Scuola Siciliana, anch'egli siciliano e vissuto nella prima metà del 1200.
Rosa fresca aulentissima, unico testo a noi noto dell'autore, è un contrasto, cioè un componimento tipico del repertorio comico giullaresco, e fu scritto senza dubbio dopo il 1231(promulgazione delle Costituzioni Melfitane) e prima del 1250 (morte di Federico II).
Da dove ricaviamo queste certezze? Semplicemente dall'analisi diretta del testo. Perciò, non perdiamoci troppo in altri discorsi superflui e andiamo a vedere la poesia.

Si tratta, si è già detto, di un contrasto. Come funzionavano, come erano fatti questi contrasti? Il contrasto era una specie di poesia in forma di dialogo, con un botta e risposta tra due personaggi, sempre un uomo e una donna, con uno schema abbastanza semplice di una battuta per strofa.
Un dialogo quindi, che ci richiama immediatamente il teatro e la recitazione in genere. Ecco quindi perché i contrasti erano una specie di "cavalli di battaglia" del repertorio dei giullari: non si limitavano a declamarli, ma li recitavano, interpretando e mimando contemporaneamente entrambi i personaggi.
Quindi, per essere precisi, più che una poesia, il contrasto è il testo di una breve azione teatrale recitata da un solo attore (il giullare) che recita contemporaneamente tutte le parti.
Ed essendo pure il contrasto di derivazione provenzale, era anche accompagnato dalla musica.

Si diceva nel capitolo precedente come i giullari, durante i loro spettacoli, recitassero le poesie dell'amor cortese dei poeti trovatori. Vero, verissimo. Solo che oltre a recitarle (e a diffonderle) ne facevano anche la parodia.
Ecco, il contrasto era anche questo: la parodia della poesia amorosa dei poeti trovatori.
La tematica dei contrasti infatti, era sempre quella. L'uomo faceva esplicite avances sessuali alla donna, lei all'inizio rispondeva sdegnata e sdegnosa, lui insisteva in un crescendo di allusioni e doppi sensi erotici e lei alla fine si concedeva. L'esatto contrario delle passioni spirituali dell'amor cortese.

Rosa fresca aulentissima non fa eccezione, trattandosi di contrasto a tematica erotica. Il suo autore quindi, Cielo d'Alcamo, non può che essere un giullare.
Un giullare siciliano per la precisione, visto che la lingua del contrasto è un siciliano molto popolare, che ricalca lo strato sociale dei due protagonisti dell'azione scenica, un gabelliere (cioè un esattore delle tasse) e una popolana (anche i personaggi, sempre di umili origini, sono la parodia degli amanti aristocratici della poesia dei trovatori).
Ma è lo stesso nome dell'autore a darci la prova definitiva del suo essere giullare siciliano. D'Alcamo, cioè di Alcamo o da Alcamo, paese a pochi chilometri da Palermo.
Cielo invece, con ogni probabilità è un toscanismo derivante dall'errore di un copista. Come hanno dimostrato illustri studiosi (De Bartholomeis, Toschi, D'Ancona... ), il vero nome del nostro autore è Ciullo.
Lo possiamo intendere in due modi, o come diminutivo di Vincenzo - Vincenzullo, oppure come vero e proprio nome d'arte. Tutti i giullari ne avevano uno, ed era sempre un nome scurrile, carico di doppi sensi erotici e sessuali.
Ciullo infatti, altro non è che uno dei mille modi per chiamare l'organo genitale maschile. Essendo un giullare, e leggendo il testo di Rosa fresca aulentissima propendiamo decisamente per questa ipotesi.

Ovvio che a scuola mica ce la raccontano tutta sta storia... ma fosse solo per il pudore di non dire che questo autore aveva scelto di chiamarsi come il pisello, non sarebbe poi così grave. Il delitto vero e proprio lo fanno le antologie, che pur riportando sempre Rosa fresca aulentissima quasi sempre ne censurano completamente la spiegazione corretta, preferendo giri di parole incomprensibili che, oltre ad annoiare a morte i poveri studenti, sono colossali menzogne.

Vediamolo allora, questo testo.
La scena è la piazza di una città. C'è il gabelliere, che sta facendo il giro della riscossione delle tasse, per strada, mentre la donna è affacciata alla finestra. Il gabbelliere la vede e dice:

"Rosa fresca aulentissima ch'apari inver' la state,
le donne ti disiano, pulzell' e maritate:
tràgemi d'este focora, se t'este a bolontate;
per te non ajo abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia"

La parafrasi, pare abbastanza semplice: "Rosa fresca e profumatissima, che appari verso l'estate, le donne ti desiderano, quelle giovani e quelle maritate".
La Rosa, da che mondo e mondo, nella poesia è simbolo della donna amata. Lei, la popolana affacciata alla finestra, è la rosa che appare verso l'estate. Semplice, semplicissimo.
Ma siamo sicuri? Qui c'è più di qualcosa che non torna. Prima di tutto, come fa una rosa ad apparire, e quindi a fiorire, verso l'estate? D'estate le rose non fioriscono, appassiscono e si bruciano, semmai. E poi, la donna è così tanto fresca e profumata che le donne la desiderano? Le pulzelle e le maritate??
No, proprio non torna questa parafrasi.
Allora, qual è quella corretta? Usciamo dalla dimensione strettamente letteraria ed entriamo in quella della messa in scena del contrasto.
Concentriamoci sul personaggio maschile: il gabelliere all'epoca indossava un lungo gonnellone nero, facilmente sollevabile. Questo perché alla coscia, legato con un laccio, portava il Libro Mastro della riscossione delle imposte. Ogni casa doveva fermarsi, sollevare il gonnellone, tirare su la coscia e segnare sul libro se la famiglia aveva pagato oppure no. Il tutto in una posizione simile a quella delle gru, con una gamba a terra e l'altra sollevata.
Ed è proprio in questa posizione che il nostro gabelliere si trova all'inizio del componimento, come una gru, intento a controllare il Libro Mastro.
A cosa serve sapere queste cose? Serve a capire l'intera poesia. Vediamo perché.
Quel particolare tipo di gonnellone, in volgare siciliano aveva un nome specifico, si chiamava state (o stati). Se allora la state della fine del primo verso non è l'estate, e se il gabbelliere sta nella posizione della gru, è chiaro che la rosa fresca e profumatissima non è la donna, ma qualcos'altro.
La rosa che appare verso la state, verso il gonnellone, è sempre lui, il pisello, il ciullo in persona. Ecco perché le donne lo desiderano, le pulzelle e le maritate!!
Capito questo, il resto della parafrasi diventa davvero semplicissimo: "tirami fuori da questo calore, se ne hai volontà, per te non ho sollievo, notte e giorno, pensando proprio a voi, donna mia".
Non è la donna a non dargli sollievo, ma la rosa, che lo tormenta - facile immaginare come, proprio quando pensa alla donna.

Lo schema narrativo del contrasto, si è già detto.
La donna respinge i bollenti spiriti dello spasimante in maniera netta e definitiva. Leggiamo nella sua risposta:

avere me non pòteri a esto monno,
avanti li cavelli m'arritonno.

Capito? Lei gli dice che piuttosto che darsi a lui, si toserà i capelli, cioè piuttosto che andare a letto con lui preferisce farsi monaca.
Ma il nostro gabbelliere non si dà per vinto.

Se li cavelli arritonniti, avanti foss'io morto,
ca' n issli mi pèrdera lo sollaccio e 'l diporto.
Quando ci passo e vejoti, rosa fresca de l'orto,
bono conforto donimi tutte l'ore,
poniamo che s'ajunga il nostro amore.

Le dice che preferirebbe morire, se lei si facesse monaca. Con la perdita dei capelli, lui perderebbe la gioia e il piacere.
Al di là del senso letterale, capito la sottigliezza, capito la parodia dell'amor cortese? Al giullare-gabelliere questa fanciulla piace fisicamente, lo attrae dal punto di vista erotico e sensuale, la vuole portare a letto, l'amore platonico non c'entra nulla. Infatti, senza capelli non lo attirerebbe più!
E affinché non sussista alcun dubbio sulle sue reali intenzioni, lui chiude dicendo: poniamo che s'ajunga il nostro amore, cioè "facciamo in modo che si coniughi il nostro amore", cioè che si intrecci in senso fisico.
Visto che lui proprio non sente ragioni, la ragazza a questo punto passa alle minacce. Se non la smette, dice lei nella strofa successiva, chiamerà i suoi parenti a fargli dare qualche bella legnata di lezione.
Ma neanche le minacce scompongono il nostro gabelliere. Appena sente la ragazza nominare la vendetta dei suoi parenti, ecco che sfodera la battuta più satirica dell'intero contrasto. Le dice:

Se i tuoi parenti trovanmi, e che mi pozzon fare?
Una defensa mettonci, di dumil' agostari:
non mi toccare padreto per quanto avere ha in Bari.
Viva lo 'mperadore, grazi a Deo!
Intendi, bella, quel che ti dico eo?

La parafrasi è la seguente: "Se i tuoi parenti mi trovano, che mi possono fare? Io ci metto una defensa di duemila augustari: e tuo padre non mi può toccare per tutti gli averi della città di Bari. Viva l'Imperatore, grazie a Dio! Capisci, bella, quel che ti sto dicendo?".
Sì, la bella fanciulla ha capito, e fin troppo bene, quel che gli sta dicendo il gabelliere.
Ma noi, noi abbiamo capito? No, noi non abbiamo capito una mazza. Il perché questo passo ci suona incomprensibile è semplicissimo: non sappiamo cosa fosse la defensa.
Nel 1231, durante un periodo d'assenza di Federico II dalla Sicilia, scoppiò una rivolta popolare in tutta la regione. Gli aristocratici riuscirono a domarla, reprimerla nel sangue e a difendere il palazzo dell'Imperatore dall'assalto.
Come ricompensa ai nobili per aver salvato la sua corte, Federico II appena tornato promulgò le Costituzioni Melfitane, una serie di leggi che ampliavano a dismisura i privilegi aristocratici in tutto il territorio dell'Impero.
Tra queste vi era appunto la defensa, una specie di assurda e pazzesca tassa sullo stupro. In parole povere: ogni nobile o alto borghese maschio poteva tranquillamente stuprare una popolana a patto che, a stupro appena ultimato, gettasse sul corpo della ragazza la somma prevista dalla tassa, duemila augustari. Pagato questo indennizzo, lo stupratore non era più perseguibile dalla legge. Nel caso in cui, richiamati magari dalle urla della donna, fossero arrivati i parenti di lei, sarebbe stato sufficiente che lo stupratore, levando le braccia al cielo, gridasse "Viva l'Imperatore, Grazie a Dio!", per far capire che aveva pagato la defensa, e nessuno avrebbe potuto toccarlo. Se lo avessero toccato, i parenti sarebbero subito stati impiccati, senza nemmeno un processo.

La spiegazione di questo passo è, come si suol dire, la quadratura del cerchio.
Solo un giullare, e non certo un poeta di corte al servizio dello stesso Imperatore, poteva lanciarsi in una satira così netta e graffiante.
Peccato solo che nessuno, o quasi nessuno, lo ricordi, e che sempre, o quasi sempre, un testo divertente e ferocemente satirico come Rosa fresca aulentissima, venga trasformato nell'ennesima noia mortale da sopportare durante le ore di scuola.
La defensa aveva di fatto legalizzato lo stupro.
Non spiegare a dovere questo testo, è di fatto la tacita legalizzazione dello stupro della Letteratura Italiana.

Giovedì prossimo non perdere:
Terzo Capitolo, GIULLARI IN UMBRIA
dove si vedrà come anche la grande poesia religiosa di Francesco d'Assisi e Iacopone da Todi fu influenzata in maniera decisiva dai giullari.

VUOI APPROFONDIRE QUANTO HAI APPENA LETTO?
Ecco alcuni suggerimenti:
ho setacciato le antologie scolastiche di mezzo mondo, senza trovare una spiegazione che mi soddisfi, né suoi contrasti in generale, né su Rosa fresca aulentissima in particolare;
perciò, ti consiglio di andare in biblioteca e cercare questi due libri: Le origini del teatro italiano, di Pietro Toschi, edizioni Il Mulino, volume I, dove si parla moltissimo della diffusione dei giullari in Italia nel 1200, del genere dei contrasti e nello specifico di Ciullo d'Alcamo e di Rosa fresca aulentissima; cerca anche, ma devi andare in una biblioteca veramente grande, un libro immortale dello storico Alessandro D'Ancona, Le origini della poesia italiana, risalente addirittura al 1891!
se vuoi invece qualcosa di più contemporaneo, l'unico che ha affrontato in maniera davvero approfondita la questione è Dario Fo in Mistero Buffo, dove oltre a spiegarci origine e natura dei giullari, dedica un capitolo intero proprio a Rosa fresca aulentissima; il libro lo trovi in tutte le librerie edito da Einaudi; lo spettacolo lo trovi tranquillamente su YouTube.

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